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Cento canzoni di cui parlare. Off he goes

Pubblicato il 24 Mar 2024

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Dicevamo degli anni ’80, della loro bellezza  ma anche delle loro problematiche sociali.
Una di queste, almeno per noi, è stata a lungo l’ossessione di aver un look adeguato, di sentirsi sempre giudicati e quasi mai all’altezza.

Preferivamo rinunciare ad uscire di casa il sabato se i jeans originali Levi’s o Armani non erano pronti da indossare  o se la felpa della Best Company era macchiata. Andare in centro o, figuriamoci, in discoteca, con una sottomarca? O peggio ancora con marche taroccate o sfigate? Mai! Piuttosto era meglio stare a studiare per l’inesistente interrogazione del lunedì!

Per fortuna i tempi delle superiori finirono e la frequentazione del clima universitario ci convinse che l’umanità era molto più varia di quella che vedevamo nel nostro buco di provincia. Però, fu solo grazie all’esplosione del grunge che le nostre menti, vite e portafogli furono salvate a tutti noi giovani incerti.
Miei cari Kurt Cobain, Eddie Vedder, Chris Cornell, Lain Stanley… non vi ringrazierò mai abbastanza! Dal 1990 tutto fu più semplice: camicia di flanella, maglietta improbabile e jeans strappati? Che c’è di male? Sono grunge! E al di là di qualche discoteca troppo fighetta, il nostro look non fu mai più un problema. O per lo meno non un nostro problema.

Ma la rivoluzione del grunge di certo è stata  molto più profonda.

Alla mia generazione abituata alle liriche di Bono Vox fin tropo chiare, pulite e spesso ipocrite con il suo amore universale (noi siamo uno ma non siamo la stessa cosa) che va bene in ogni occasione sia quando devi raccogliere i soldi per i poveri sia quando devi spostare la tua sede legale in paesi dove paghi di meno tasse, i Nirvana passarono sopra come una meteora: non avevamo fatto in tempo ad imparare il testo di Smell Like Teen Spirit che Kurt Cobain aveva già deciso di volere entrare per forza nel fottutissimo club dei 27.  Con il suo suicidio il mito sorpassò subito la realtà, ascoltavamo Comes As you Are, nella versione più slow di unplugged, perché era obbligatorio, non perché avevamo capito qualcosa della strofa: Vieni come come sei/come quello che vuoi essere/come un amico/ come un vecchio nemico. 

Ma il grunge di Seattle, nonostante nasca con la maledizione della morte stampatagli addosso a chiare lettere (Andrew Mood, cantante dei Mother Love Bone muore nel 1990 di overdose a soli 24 anni), è destinato alla gloria eterna.

Se gli Alice in Chains hanno un sound troppo cattivo per prendere il posto dei Nirvana e se i Soundgarden sono guidati dal genio troppo inquieto di Chris Cornell (che non riesce proprio a portare avanti un solo progetto alla volta e ricadrà nella maledizione del nichilismo grunge quando ormai era passato canzoni commerciali di successo come Nearly forget a broken heart da solista e proponeva un hard rock quasi accademico con gli Audioslave), sono i loro odiati rivali dei Pearl Jam (una rivalità senza senso fomentata al solito dalla stampa e che lo stesso Kurt ridimensiona per tempo) a consacrare il grunge nell’olimpo della musica nei trent’anni seguenti.

L’alchimia che si sviluppa fra Ament – Vedder -Mc Ready – Gossard è qualcosa di unico e irripetibile. Genio, sregolatezza, e rifiuto delle regole dello star system, sono gli stessi ingredienti di decine di altre band, comuni a tutta la scena di Seattle; ma qui non si sviluppano i meccanismi tossici che portano alle tragedie ben note.
I fan dei Perl Jam sono gli stessi di quelli dei Nirvana o degli Alice In Chains ma forse, la voce di Eddie Vedder che viene dalla California è appena più orecchiabile per gli amanti del rock classico. Il successo è clamoroso, basta la partecipazione a LoolaPalooza nel 1991 con il loro album Ten in vetta ad ogni classifica di vendita a renderli già leggenda, è la band da vedere live  a tutti i costi. Venti anni dopo Jeff Ament dirà: “Eravamo lì a un passo dal sogno, il contratto per ten era firmato, stavamo per cominciare ad essere delle vere rockstar quando vedo Eddie che ad ogni concerto comincia ad arrampicarsi sulle luci e a gettarsi sopra il pubblico da dieci  metri di altezza. E penso, ecco stavamo per farcela e invece saremo il solito gruppo di coglioni in cui il cantante muore per qualche cazzata”.

Non succede, il loro primo album Ten esce alla fine dell’estate del 1991 esattamente come Nevermind, secondo album dei Nirvana. Insieme cancellano qualunque previsione ottimistica sul successo commerciale del grunge. Entrambi gli album vanno ai primi posti di ogni classifica di vendita, americana e mondiale, (per quanto continuino tutti a dichiarare di non essere interessati al successo commerciale), entrambi entrano nella lista del 500 migliori album rock della storia di Rolling Stone (per quello che possa significare) ed entrambi aprono la strada a tour mondiali sempre sold out alle due band.

Il 5 aprile del 1994 il sogno dei Nirvana si infrange nel suicidio del loro cantante che sconvolge il mondo, i Pearl Jam (nati dal suicidio di Modd) sono sconvolti così come tutta la scena di Seattle come loro stessi raccontano nel film documentario “Pearl Jam twenty” del 2011. Però vanno avanti e probabilmente una grande mano su come fare del rock in qualche modo, senza doversi proprio far fuori (cit. Ligabue) glie la dà Neil Young con cui suonano nel suo album Mirrorball del 1995 (memorabile lì il pezzo Downtown vera fusione fra il grunge e il suo precursore/ispiratore degli anni ’70).

È il 1996 quando esce No Code e noi, ancora sconvolti dal suicidio di Cobain, lo andiamo ad ascoltare con maggiore attenzione: vogliamo sapere cosa ci dice davvero il movimento musicale di Seattle… e ancora non lo sappiamo che da lì al movimento no global manca davvero poco.
L’album debutta ai primi posti in modo automatico, ma non ha lo stesso successo dei precedenti. Molti fan lo vedono come un tradimento del grunge, troppe ballate melodiche.
Fatto sta che contiene questa Off he goes. Parlando semplicemente di musica, di qualunque genere sia, è un capolavoro; ci conquista subito. Parte distorta e con un sound check in corso (come tanti classici del rock, wish you were here tanto per dirne uno) poi la voce di Vedder fa il resto. Ci conquista dal primo ascolto e allora andiamo a studiare il testo.

Delusione! Ma di cosa parla? Dov’è l’impegno sociale o la politica? Dov’è l’amore eterno e universale? E’ uno che da dei consigli a un amico un po’ troppo stronzo. Che delusione. Leviamo quella cassetta dal mangianastri quasi con rabbia. Aridatece Bono che parla di cose importanti, qui non abbiamo tempo da perdere dobbiamo cambiare il mondo.
Condividiamo le opinioni di chi dice che sono finiti i Pearl Jam, e tutto il grunge… “non hai visto che neanche gli Alice in Chains non azzeccano più un pezzo?”
E’ possibile fare una canzone su un tuo amico troppo fatto?
La domanda ci tormenta, non ci fa dormire, perché la risposta è ovvia anche se siamo dei sognatori ventenni. Certo che è possibile. Anzi perché ti da così fastidio?
Ma poi hai capito di chi o di che cosa parla Eddie Vedder?
Rimettiamo su quella cassetta, di notte, nel walkman. Riascoltiamo.

Conosco quest’uomo/ ma il suo viso sembra tirato e teso / Come se stesse correndo veloce su una moto con il vento in faccia/
Quindi mi avvicino con tatto/ Gli Suggerisco di rilassarsi/ Ma si muove troppo velocemente/
Ha detto che mi vedrà dall’altra parte/ alla fine di questo viaggio/ che lo sta prendendo troppo /
Eccolo lì con i suoi vestiti perfettamente trascurati/ Eccolo lì, ancora non è tornato.
ho visto una sua foto/dove non sembra la stessa la stessa persona/
Noi ce ne andiamo via / e mi chiedo cosa abbia dentro/ 
È come se i suoi pensieri fossero troppo grandi per la sua persona/
Dove è stato portato? Non lo so/ Ma se ne va /con la sua speranza perfettamente disattesa/ se ne va. 
E adesso non credo ai miei occhi/ Perché è tornato
sembra che i miei preconcetti siano/ quello che davvero dovrebbe essere bruciato
Perché sorride ancora/ Ed è ancora forte
Niente è cambiato/ Solo le stronzate attorno /sono cresciute
Ora è a casa mia e stiamo ridendo/ Come abbiamo sempre fatto
Io e il mio vecchio amico/ lo stesso vecchio amico/
almeno fino alle dieci meno un quarto/ poi lo vedo sforzarsi e quindi distrarsi
So già cosa succederà/ prima che io possa fare un passo/ è di nuovo partito.

Togliamo le cuffie in questa notte dove, chissà perché, non siamo in giro a far baldoria ma siamo soli con noi stessi. Capiamo perché alla prima lettura non ci è piaciuto il pezzo. Del resto non ci piace mai sentir dire che stiamo sbagliando; non ci piace mai sentir dire che stiamo andando troppo oltre, non co piace mai sentire qualcuno che ci dice “ehi bro’, che stai facendo?”.
Si può far poesia e canzoni su questo? Certo, anzi forse se ne fanno poche e si parla troppo di peace and love universali. Forse una mappa sul come star meglio con se stessi, per non odiarsi troppo, è utile come quelle utopiche sulla “nuova società”. A volte avere un amico che ti dice “calmati” è più utile di avere un amico che pontifichi sul senso dell’amore o del perché sia necessaria la rivoluzione.

Eddie Vedder giura che questo pezzo parla del suo essere uno stronzo come amico.
Parere nostro, del tutto non condivisibile e senza la minima pretesa che possa essere davvero così; ma se avesse concluso con “addio Kurt” nessuno se ne sarebbe meravigliato.

 

OFF HE GOES – Pearl JamNo code 1996 

 

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