“Steve-O, Steve-O… così rimarrai marchiato per sempre come scrittore di genere horror! Poi non dire che non ti avevo avvertito”
L’aneddoto che Stephen King riporta nella nota conclusiva di Stagioni Diverse (1982) mostra come siano volatili i desideri degli uomini; quelle sopra sono infatti parole del suo primo manager e risalgono alla fine del 1976 quando, dopo il successo dei suoi primi due romanzi horror (Carrie e Salem’s Lot), cercava di convincere il suo assistito a cambiare genere per evitare il rischio di essere categorizzato con un’etichetta che si sarebbe portato dietro per il resto della vita. In sintesi, per proteggere la sua carriera non voleva proporre Shining agli editori (sic!).
Steve-O (forma colloquiale usata dagli yankee per denigrare e sbeffeggiare amichevolmente l’interlocutore) decise, per sua fortuna, che non aveva problemi ad essere messo in compagnia di Lovecraft, Poe, Chambers e Stoker; quindi andò per la sua strada e Shining… vabbè non infieriamo oltre sul suo povero manager.
Anche perché le parole di cui sopra vengono riportate per far risaltare il cambio di paradigma quando il nostro, nel 1981, presentò allo stesso manager il progetto di Stagioni Diverse, ovvero storie che con l’horror non c’entravano nulla. Dopo aver ascoltato le sinossi de Il corpo, Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank e Un ragazzo sveglio il manager chiese al già indiscusso Re dell’horror: “… ma non potremmo inserire un’altra storia che riporti un po’ al tuo horror classico? Una sorta di ‘stagione consueta’?”
E lui sorridendo, visto che aveva già in mente Il metodo di Respirazione, acconsentì.
Una lunga introduzione-aneddoto per dirvi che voi, amanti del thriller classico, dovete assolutamente leggere la trilogia kinghiana Mr Mercedes, Chi perde paga e Fine turno. Con questi tre libri fantastici il Re (o “lo zio” per i fan) da lezioni di thriller a destra e manca, e il fatto che è stata dedicata in apertura a Thomas Harris non sarà bastato di certo ai suoi colleghi per indolcire l’amara pillola.
Del resto già con Misery, Il gioco di Gerald, e Dolores Claiborne aveva ben chiarito la sua capacità di tenere il lettore sul filo del rasoio senza dover ricorrere ad elementi paranormali… e tralasciamo in questa sede la vecchia discussione sulla necessità che l’horror debba contenerli per forza per essere catalogato come tale o no.
Aggiungiamoci poi che con The Dome e 22/11/’63 aveva già dato lezioni di Sci-Fi, se con la bellissima serie de La torre Nera aveva creato uno dei mondi Fantasy più originali della storia. Per non parlare poi di come con Il miglio verde abbia decisamente travalicato ogni confine della letteratura magica e semplicemente regalato emozioni a palate ai suoi lettori.
[La serie TV, l’ennesima tratta dai libri del Re]
Quando pensate a Stephen King non lasciatevi ingannare dall’innegabile successo commerciale (500 milioni di copie vendute) perché quelli per i suoi libri sono davvero soldi ben spesi; ormai lo ammette anche la maggior parte di coloro che per troppo tempo l’han considerato letteratura di serie B, ha il talento di scavare come nessun altro nel fondo dell’animo umano e poterti davvero far comprendere le emozioni dei suoi protagonisti. E quindi le tue.
Questa sua capacità, applicata ad una storia thriller, semplicemente rende il libro impossibile da interrompere. Le tue mani si incollano alle pagine e ad un certo punto semplicemente non puoi smettere di leggere.
Se il tuo treno è arrivato a destinazione scendi e ti siedi sulla prima panchina per continuare la lettura, se dovevi andare al lavoro telefoni per dire che hai un gran mal di testa e non riesci a guidare la macchina, se dovevi accompagnare tua moglie all’Ikea beh… magari a malincuore ma ci vai all’Ikea, perché contro certe cose neanche la magia di King può far molto.
Il primo libro della trilogia di Mr Mercedes parte con un’idea tanto geniale quanto cattiva. Da una scena degna di Furore ma ambientata nel 2009 (appena dopo la crisi finanziaria che colpì al cuore il mondo finto del capitalismo infinito) con centinaia di persone in fila durante la notte a sfidare il freddo per aspettare la fiera del lavoro, si passa all’incubo di queste travolte alle prime luci dell’alba da un pazzo sadico omicida che ha appositamente rubato una mercedes per compiere questa impresa. E una volta compiuta riesce anche a farla franca, ma per sua sfortuna il detective Bill Hodges e la sua aiutante Holly Gibney gli dedicheranno le loro attenzioni.
Nel secondo libro King intreccia una storia iniziata nel 1978 (dove torna su uno dei suoi vecchi temi, ovvero le paure di uno scrittore) con una che inizia nel 2009 (dalla strage del primo libro) e si concluderanno entrambe nel 2014. L’ennesima prova di bravura uno scritture che sa costruire trame complesse e risolverle come quasi nessun altro. Il tutto arricchito da un omaggio alla letteratura, ai lettori e ovviamente ai libri cioè a quelle storie che, come questa, non ti fanno staccare gli occhi dalle pagine.
Fine turno conclude le avventure legate a quella maledetta Mercedes, ma non è tanto il ritorno a qualcosa di paranormale (psicocinesi, telepatia) che è da sottolineare (che è quasi un buffetto amichevole come a dire “Ehi, sono sempre Stephen King!”) ma un’altra idea cattiva. Cattivissima. L’istigazione al suicidio. King sceglie di affrontare uno dei tanti temi tabù dell’informazione che vuole proteggere i benpensanti americani; parla di come sia facile per degli stronzi istigare al suicidio una persona fragile, e anche meno fragile.
E in tempi degli shit – social – storming che avvengono per i motivi più idioti non è possibile definire questa terribile idea come “qualcosa che fa pensare”. No.
È letteralmente un pugno nello stomaco della nostra cecità e un calcio in culo agli stronzi di ogni età e nazione; ai leoni da tastiera che sanno ferire con due parole ben studiate, agli imbrattapagine che poi si nascondono dietro “il diritto di cronaca”, a tutti quelli del “me ne frego” che siano nostalgici del ventennio o semplicemente merde.
Questo è Stephen King. Uno scrittore contemporaneo per cui un Nobel per la letteratura non basterebbe più a far capire la sua grandezza. E se vi chiedete perché nel 2025 stiamo recensendo e parlando di libri usciti dieci anni beh, non possiamo che ammetterlo.
Ogni tanto anche i grandi amori hanno bisogno delle pause e, lo confessiamo con un po’ di vergogna, e intorno al 2008 le ultime produzioni del Re non ci erano piaciute. Duma Key, Cell, La storia di Lisey ci avevano dato l’idea di uno scrittore al tramonto e che, dopo aver concluso La torre nera in un modo che in confronto Il trono di spade è stato banale, stentava a ritrovare storie alla sua altezza.
Poi abbiamo recuperato Notte buia senza stelle.
Poi abbiamo recuperato 22/11/’63.
Poi abbiamo recuperato Joyland.
E con questa trilogia siamo ormai consapevoli di aver lasciato alle spalle un bel po’ di roba buona, lo sappiamo, ma abbiamo quasi recuperato tutto.
Lunga vita al King! (e vergogna perpetua sull’accademia di Stoccolma).