Ospiti
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Pubblicato il 10 Ago 2014
Scritto da Susanna Angeli
“Zio Osvaldo ha detto che oggi pomeriggio viene il fotografo e facciamo lo Scatto.”
“Quale scatto?”
“Lo scatto a noi che siamo i figli maschi più grandi della famiglia Moroni”.
“ Ma solo noi fratelli?”
“Della famiglia nostra saremo io, Bruno e tu Giusè però nostra madre ha detto che lo scatto può venirlo a fare anche Mario. Ma lo sapete che davanti alla macchina fotografica non vi dovete muovere? Fermi e dritti a guardare l’obiettivo senza ridere perché lì davanti ridono solo i ragazzini; poi nostra madre ha detto che non c’è niente da ridere sennò sembramo scemi.”
“Mario, ma tu c’hai l’occhio guercio, ma come fai a guardà dritto l’obiettivo?”
“Ma questo qui, come si chiama? Gino, come se chiama tu fratello più piccolo?”
“ Si chiama Giuseppe, ma non è scemo è piccolo.”
“Bè vabbè comunque ‘sto Giuseppe de cinquanni, che però ne dimostra due de cervello, tocca fallo parlà pe forza? Comunque voi fratelli Gironi fatevi i fatti vostri che a me ci penso da solo perché lo so io a tredici anni suonati da un mese cosa valga la pena guardare con l’occhio dritto… Comunque Gino, stammi ad ascoltare e parliamo di cose serie: allora la brillantina chi la porta?”
“La brillantina ce l’ha nostro padre e a Pasqua ce la possiamo mettere pure noi tranne Giuseppe ovviamente.”
“Bella Regà! E questa è risolta. Ricapitolando: appena pranzato, vengo da voi; prima però il maestro m’ha ordinato di completare due pagine di moltiplicazioni a due e tre cifre col lapis e poi devo fa pure la prova sennò domani mattina ci prendo la mia e quando torno a casa, mio padre me ne rifila due di ceffoni aggiustati come se deve che mi madre, ha detto che non me po sempre coprì.”
“Mario, ma anche se c’hai l’occhio guercio, tu padre te li rifila i ceffoni?”
“Certo che tu non è che sì piccolo, è che tu non capisci proprio niente Giusè. Da le parti mie in via dell’Ospedale se dice che c’hai li bigattini dentro la capoccia. Vabbè comunque a me sto scatto m’interessa, primo perché co’ la giacca e il foulard de mi fratello, faccio la porca figura mia, altro che voi… che de tre non ce ne famo manco uno; non c’avete presenza ne’ personalità infatti non ve se fila nessuno. Tu e Bruno, Gino mio, c’avete, sette e nove anni, quest’andro che ce n’ha cinque nemmeno lo prendo in considerazione, non sapete fa’ altro che giocà tutto il giorno giù la strada co’ le monete e co’ li tappi quindi figurarsi…. Ma io a febbraio ne ho fatte tredici di lune. Secondo a ‘sto scatto ce tengo perchè dalle parti nostre se nella vita ti capita di fare due scatti al massimo davanti ad una macchina con una lente sul davanti, ti devi considerare fortunato. Gino, tu che credi di essere l’intellettuale del gruppo perché in terza elementare sai già fare le moltiplicazioni e le divisioni a due e tre cifre mejo de me che so du’ volte che ripeto la quinta, dimme un po’ ‘na cosa… Come la chiamano la lente della macchina fotografica quelli che se ne intendono?”
“Obbiettivo”
“Ah vero lo chiamano “obbiettivo” e poi qui lo sapete tutti, non fate finta di niente… Io non farò in tempo a prendere moglie, e non farò nemmeno mai in tempo ad innamorarmi, ad innamorarmi davvero intendo, perché il 2 agosto del 1943 non c’avrò più solo un occhio guercio, ma gli occhi me se cacceranno del tutto insieme al cervello che schizzerà da tutte le parti e quando ritroveranno la salma non riconosceranno manco la differenza tra un piede e una mano. A quel punto, la nostra città diventerà l’Obiettivo e tutti noi, sotto la lente di un occhio sovrano, e non più “Davanti” ad esso come nella foto, senza scampo, ci ritroveremo ad essere solo gli effetti collaterali dell’individuazione di un obbiettivo sensibile. Terzo io ce tengo a sta foto, Gino mio, perché tua nipote quando andrà a vivere in un appartamento, prima sotto l’ala protettrice di un imperatore romano in una via adiacente alla stazione ferroviaria, la porterà con sè e la considererà parte della storia di un Paese, parte costitutiva della sua privata vicenda identitaria e quattro ragazzini di cinque, sette, nove e undici anni diventeranno i numi tutelari di una cronostoria familiare e personale. E noi in posa faremo la nostra porca figura circondati da una cornice bianca e sotto un vetro trasparente e leggero”.
“Bella Regà! Mario, ma tu sai tutto per davvero! E ‘sta fotografia dentro la cornice bianca e sotto un vetro trasparente, dove la metterà ‘sta nipote de Gino? A me me piacerebbe tanto sta vicino a una finestra. In sanatorio il bacile mio, quello fatto apposta per sputare sangue era così lontano dalla piccola finestra della camerata che la maggiorparte delle volte non c’azzeccavo e sputavo fuori, così appena finito di vomitare tutto il dolore delle viscere ferite e abbattutte dall’esercito agguerrito di bacilli crudeli e spietati come caccia bombardieri in perenne attacco, mi toccava chiamare la suora e pijacce pure la mia. Gino, ma che je lo dirai tu a ‘sta nipote tua come fai co’ nostra madre che ce parli sempre tu al posto mio? Ricordatelo però, vicino alla finestra e questa volta non avrò nessun bisogno di un bacile.”
“Sta tranquillo Giusè, ci penserà da sola; noi quattro in bianco e nero insieme per sempre. Io al centro e voi attorno sotto un vetro trasparente e leggero contornati da una cornice bianca. Accanto a noi, sulla mensola vicino alla finestra, esposti al cono di luce di Mezzogiorno così come alla trasparenza lattea di un cielo siderale, ci saranno una madre ed un bambino. Una madre con un bambino in braccio nel giorno del suo secondo compleanno, anche loro protetti da un sottile vetro trasparente e contornati dal legno azzurro di una cornice; una madre con un bambino, in un giorno azzurro mano nella mano, pronti a guardare lontano, più in là del dolore e con la certezza di essere alla vigilia di una dipartita ma all’inizio di una vita nuova e di una gioia ritrovata.”
“Gino, me la posso mettere pure io la brillantina oggi per la foto? Se glielo dici tu a nostra madre magari accetta.”
“ Giuseppe sei ancora troppo piccolo per queste cose; ti devi accontentare della saliva tanto l’effetto è lo stesso, ti metti un po’ di sputo sul palmo, strofini forte e poi ti passi le mani tra i capelli ed alla fine gli diamo una botta di pettine.”
“Gino, ma perché fingi di non sapere? Gino, tu lo sai già come andrà a finire. Anche io morirò non ancora diciottenne e quanto tempo avrò mai per aggiustarmi i capelli con la brillantina, per prepararmi a festa in vista di un obiettivo che con un colpo non ci faccia cadere a terra morti ammazzati, ma che ci renda fissi e stabili, immortali grazie all’emissione di uno scatto fotografico dove rimanere imperituramente bambini, per sempre giovani e spensierati conciliati con la vita e con lo scorrere delle stagioni, mezzi nudi d’estate e poco coperti d’inverno, senza il minimo sospetto di sopravvivere alla tbc per poi cadere ad un mese dalla guarigione, sotto le bombe del 2 agosto 1943 e per giunta in una notte di grilli e gelsomini”.
“Va bene Giusè, oggi una botta de brillantina tocca a tutti… però io, regà, me metto al centro e sarò l’unico seduto mentre voi altri tre ve metterete intorno a me. Sì starò seduto e deciso a guardare in una prospettiva lontana oltre il dolore delle vostre perdite, oltre la sofferenza di coloro che mi cadranno accanto, che raccoglierò e seppellirò come se raccolgono le mosche dopo che vengono strigate e gettate a distanza di rispetto”.