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Ricettario dello chef
Pubblicato il 26 Giu 2021
Scritto da Altri Autori
Fare a pezzi il corpo fu più difficile di quanto mi fossi aspettato, ma ero determinato a cucinarlo per la cena tra amici e a fare in modo che i presenti si mangiassero le prove dell’omicidio, insieme a un bel contorno di patate e formaggio.
Ritrovare la mannaia in fondo a un cassetto che non aprivo da anni è stato un colpo di fortuna: gli strati di polvere che si sono accumulati nel tempo hanno reso la lama ancor più spessa, mondarla ed affilarla ha richiesto più tempo del previsto.
Cinque, sei, sette colpi decisi e finalmente l’osso si arrese, dividendosi in due parti all’apparenza uguali. Trattenni il fiato sfilando il telo di plastica lordo di sangue su cui era adagiato il corpo del bastardo, cercando accuratamente di evitare macchie sul costoso parquet di noce.
«Pulire sempre la postazione di lavoro», le sue parole risuonavano nella mia testa mentre passavo la spugna ormai vermiglia sul tavolo di marmo.
Toccò poi al coltello dalla lama da 16 centimetri comprato per l’occasione: lavai la pelle con acqua calda ma non bollente, come consiglia lo chef, per far sì che si ammorbidisse senza scottare la carne. Scuoiare richiede delicatezza, sguardo vigile e la mano ferma di un chirurgo: vorrei che qualcuno fosse stato lì per ammirare la destrezza con cui portai a termine l’operazione.
Un paio di centimetri per ogni taglio di filetto: il bastardo mangiava per professione, dovrebbe garantire i tre pezzi necessari per la cena.
Consultai l’ultimo libro di ricette del fin troppo celebre chef Costa prima di mettermi ai fornelli, optando per un secondo classico “dal sapore intenso e deciso che richiama i profumi del Mediterraneo”.
Antonio è il primo ad arrivare, porta con sé un rosso di ottima annata, perfetto compagno di viaggio del piatto che ho lasciato sul fornello. Mattia si presenta immancabilmente in ritardo, si dirige trafelato verso il frigorifero per far spazio alla millefoglie che chiuderà la prelibata cena.
«Vuoi dirci finalmente il piatto segreto della serata?», domanda Antonio subito dopo il brindisi di benvenuto, tenendo il bicchiere a mezz’aria.
«Filetto arrosto con patate rosolate al pesto di sedano e basilico, accompagnato da una caciotta di bufala con confettura di cipolle e pere», rispondo tenendo il bicchiere a mezz’aria, quasi a chiedere un nuovo brindisi.
«Non male», sbuffa Mattia, «ma ancora non capisco perché tanto mistero intorno a un semplice arrosto con patate e formaggio». Mi schiarisco la gola: «L’unicità del piatto sta nella portata principale, per la precisione nella materia prima sceltissima».
Lascio che la frase aleggi a mezz’aria, come il bicchiere poc’anzi, prima di aggiungere: «Il punto, vedete, è nell’animale che ho scelto per questo secondo, o sarebbe più corretto dire nell’essere umano. Tagliato con le mie stesse mani».
Ridono, raccogliendo finalmente l’invito a brindare di nuovo.
Mastico lentamente, lasciando che i molari sprofondino nella carne tenera con ritmo cadenzato, danzando con i muscoli resi flaccidi dalla cottura. Mentre i denti triturano, la lingua accarezza il succoso tessuto ormai poltiglia prima di deglutire. «Farlo a pezzi è stato più difficile di quanto credessi». Mi guardano incuriositi continuando a masticare. «Ho scoperto a mie spese che fare a pezzi un essere umano richiede uno sforzo fisico non indifferente».
Antonio inghiotte velocemente per la smania di parlare: «Non fraintendermi, la carne è buonissima, il contorno altrettanto. Non capisco però perché tanto impegno, si trovano ottimi filetti umani anche in macelleria».
«Ne ho preso uno delizioso al supermercato proprio pochi giorni fa», si affretta ad aggiungere il terzo ospite.
Un altro boccone succulento rotola nell’esofago.
«Questo è diverso», dico, «non si tratta di un taglio di seconda scelta. Niente infermi, disabili o nullafacenti dalla carne flaccida. Stavolta ho puntato in alto».
Gli infermi sono i più economici, i primi messi sul mercato quando il sovrappopolamento ha imposto nuovi consumi alimentari. Stipati in ospedali sovraffollati, erano un peso affettivo ed economico per i futuri eredi: lo Stato ha offerto invitanti detrazioni fiscali per cedere il corpo quasi esanime del malato parente alla biotecnologia. Sono diventati presto carne da macello, povera di proteine e a basso prezzo, perfetta per i fast food.
Un anno dopo la popolazione aumentava e la carne umana andava per la maggiore. La scelta dei disabili è stata la più logica ma, a mio parere, è stata anche la scelta sbagliata.
La loro carne è dura, difficile da gestire senza una buona dose di brodo di polsi, nocche e ginocchia. Uno stufato richiede almeno tre ore di cottura a fuoco lento e un corposo accompagnamento di vino rosso o birra scura. E anche in quel caso il risultato è spesso insoddisfacente.
Al contrario, i nullafacenti offrono i tagli migliori, nei programmi di cucina il controfiletto o il girello di abulico sono le proposte più alla moda. Per un disoccupato in buona salute nel mio ristorante si può spendere fino a trenta euro l’etto.
«Quello che avete appena mangiato, amici miei, è l’apogeo della carne, il culmine dell’esperienza culinaria della nuova era. O come diceva sempre il tracotante chef Costa, “il top di gamma” servito nel piatto intenso e deciso da lui stesso inventato», dico cercando di togliere un pezzo di filetto dello chef incastrato tra i denti.
Marta Bonucci