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Evoluzione: dalla corsa al viola
Pubblicato il 24 Giu 2016
Scritto da Altri Autori
17-7-2012.
Ascensore. Siamo in cinque qui dentro. L’intimità è ora inevitabile.
Dal basso dei miei diciassette anni, sento l’intera superfice del corpo sottile spalmata sul metro e novanta di mio cugino. Quando rimaniamo soli col cieco dirimpettaio, mi attira a sé. Sento chiaramente e con imbarazzo la nostra parentela di secondo grado premuta sull’addome.
Mi impedisce una qualsiasi azione. Mi sottrae avido il respiro condividendo il proprio.
Letto. Appartamento libero. Il dolore mi muore in gola mentre lacera l’imene.
A sentire l’uomo in Adidas che li segue nella corsa, il loro passo prosegue troppo lentamente. Per uno che corre abitualmente, dover rallentare il ritmo è un crimine al proprio apparato nervoso. Se non fosse per il tratto sterrato stretto, li sorpasserebbe volentieri per la quarta volta.
Sono i capelli lunghi raccolti che aiutano a distinguere il padrone dal cane, entrambi castani, allenati e prestanti.
Ed ecco il dramma: davanti a lui, il bipede implode. Il burattinaio gli ha appena tagliato i fili.
Il giovane cade di viso senza proteggersi, colto nell’immediato da qualcosa. Il boxer, dopo lo strattone, annusa la testa sanguinante che il neo-soccorritore solleva adesso timoroso.
La pelle ha inglobato i sassolini. Il polso tace. Nei sui occhi il terrore.
Meno di 5 minuti e sopraggiungono i soccorsi.
“Via io, via voi, via tutti!” grida un paramedico alla folla.
Ricomincia con i massaggi.
“Via io, via voi, via tutti!”.
“Basta Lu, già 10 minuti…”.
Il cervello di Paolo non riceve ossigeno da troppo tempo.
“Ora del decesso 9.46”. È il 24-3-2015.
Luigi e Antonio sono fuori da stamattina. Ora saranno o a “caccia” o a studiare. Massimiliano è appena uscito.
Mi fisso le gambe sottili appoggiate in verticale alla parete.
Non importa che siano passate settimane da quella chiamata, il suo ricordo è ancora una cicatrice da coprire con la manica.
A pensarci, rischiavo addirittura di rispondere “Amore, che succede?”, smascherando tre anni di felicità nascosta alla nostra famiglia. Ero in pausa a chiacchierare con un docente, così mi sono contenuta: “Pronto?”.
“Tesoro…” la voce straziata “… tesoro, una …oddio… Lucia, io…”.
“Zia? Zia, cos’hai? Zia? Paolo è con te?”
Singhiozzava attraverso il telefono del figlio, dicendo tre parole in croce e mancando paurosamente in grammatica.
Al ché intervenne zio, con la sua voce calda.
Penso che il suo dire “Paolo se n’è andato”, nonostante il tono commosso, non mi abbia fatto comprendere la situazione. Il vero flash di consapevolezza l’ebbi davanti alla bara chiusa all’obitorio, durante la camera ardente. Il viso impresentabile per via della rovinosa caduta. Solo una fotografia da ammirare. Immaginarlo lì, nel mogano tirato a lucido, sfregiato, pallido, inanimato. Sono fuggita.
Due vestiti, una buona scusa e dritta filata a Roma, senza un posto preciso dove andare. Chiamai Massimiliano. Credo di avergli fatto un gran brutto effetto, forse sentì pietà per me e, con molto tatto cercò di farmi calmare e mi disse di andare a casa sua. E qui sono ancora, con Xanax & company. Continuo a fissarmi le gambe poggiate alla parete e non le sento più mie. Non vorrei più sentire nulla di me. Vorrei non sentire più.
L’insonnia è devastante. Dormo con Max da quando è single, per una sua esplicita richiesta. È preoccupato, fatica a lasciarmi sola.
Tra gli attacchi di panico, le palpitazioni ed i pianti notturni affacciata al balcone a sei piani da terra, credo inizi a temere per la mia salute. Non solo mentale.
Ci conosciamo dai tempi delle superiori, frequentando ora insieme giurisprudenza nella capitale. La nostra è un’amicizia di quelle empatiche, non pretenziose, priva di aspettative e complessità necessarie in un rapporto di coppia. Due persone-diario, due spalle d’ironia e sensibilità, senza bugie “a fin di bene”. Pacifici.
I coinquilini credono sia lesbica, ma solo perché avevano iniziato una battuta di caccia con me in
palio.
Tutti ritengono io stia preparando il prossimo esame; in verità i libri nell’armadio hanno iniziato a sublimare più in fretta della naftalina. Ai miei ho detto d’avere un lavoro part-time oltre agli studi, per non dover restare in una casa dove si piangeva semplicemente la perdita d’un nipote.
Sì, ultimamente racconto qualche menzogna.
Ogni sabato torno a Terni per pranzare a casa. Per far sentire a mio fratello Marco che non l’ho abbandonato con i nostri genitori. E poi per affogare nel brecciolino del cimitero davanti agli occhi di Paolo, accanto alla data di morte.
La mia vita è diventata un dolore troppo forte da sopportare. Ieri sera ho provato con un pugno di pasticche. Sarei svanita nel nulla. Invece il mio organismo ha rigettato dopo pochi minuti anche l’anima. Credo di percepire comunque qualche effetto positivo, come i muscoli rilassati.
Quindi basta. Basta! Ero ambiziosa, avevo programmato la mia vita.
Mi alzo dal letto.
Ero calma, pacata e parlavo con cognizione di causa.
Spalanco la porta finestra.
Se la maturità è stata conseguenza diretta dell’assenza fisica dei miei e dell’aver fatto da genitore a Marco, con la verginità ho perso lo scetticismo verso l’amore.
La notte di Roma non tace, è illuminata delle vite degli uomini.
Paolo mi ha fatto innamorare, e ho provato la vergogna di essere umana. L’avere una persona come chiodo fisso in testa. Il sorriso ebete di quando la si pensa. Il desiderare d’essere all’altezza degli incontri. Il domandarsi come si appare a qualcuno che ti vuole. La vergogna divenne forza.
In quell’ascensore ha spezzato la parentela di quel secondo grado di troppo. Mi ha sfilato di dosso la timidezza, avvolgendo il mio corpo nudo e godendone centimetro dopo centimetro.
Su questa superficie ora solo il pizzo coperto dalla camicia bianca sformata. Rispecchio la desolazione più totale. L’assenza di ragione. Il nulla.
Il marmo sotto i glutei è freddo. Le gambe a penzoloni. Le lacrime.
Un infarto fulmineo e definitivo. Un difetto cardiaco non riconosciuto. Ecco com’è morto.
Oscillo paurosamente. La testa come un contrappeso.
E poi il vuoto. Nulla. Roma non urla più. Luci senza significato.
Sento di precipitare, di essere morta senza cadere. Non sono le mani di Paolo, è il vento a fasciarmi. La camicia aderente sul petto. Sento la vita. I capelli color crema che frustano il viso pallido, deperito.
Cosa sto facendo? È caldo per essere una notte d’aprile. Lo percepisco sulla pelle. Nei polmoni.
È tutto ok. Sono qui. Io sono qui. E finalmente il sonno dei beati.
Ero fino a poco fa a pranzo dai miei genitori. Marco in disparte mi ha raccontato di come stessero spesso fuori casa. Gli manco, ma tornerò presto, è una promessa.
I due sono stati addirittura sorpresi di vedermi, sia perché non è sabato sia per la mia tranquillità. Mi hanno persino domandato se fossi fidanzata. Comico come l’abbiano chiesto proprio oggi.
È il compleanno di Paolo, quindi eccomi al cimitero.
Non si vede nessuno, perciò sdraiarmi sulla lapide non sarà un problema.
Amore, ieri stavo per non farcela. Eppure è stato un risveglio, come destarsi dal torpore dell’insensatezza. Credevo d’esser un’anfora priva di contenuto. Nulla di più falso. Poi il vuoto l’ho sentito davvero ed è stato tremendo. Peggio che perderti.
Silenzio. Anche i pensieri tacciono.
Una vecchia signora passa senza far caso alla sobria ragazza stesa sulla tomba dell’amante.
Percepisco un nuovo marmo, concreto e duro sotto la schiena.
Avresti dovuto compiere ventidue anni ma sei morto prima. Morto. Un corpo, una carcassa.
Anche se nessuno di noi ha mai detto no, ci siamo lasciati perché te ne sei fisicamente andato.
Di te un nome.
Tenerti con me non significa tenerti in vita. Sotto anestesia, quest’illusione mi sta uccidendo.
La morte è un punto, non necessariamente un male. È qualcosa che per chi resta avviene nel mentre. Questa sensazione di “fine” non riguarda me.
Io sono viva. Stavo per svanire nel nulla; perdere tutto. Nel tempo che ho guadagnato non posso soffrire tanto. Io sono, ancora.
La morte profuma ora diversamente. Basta.
Alzandomi spolvero i pantaloni e sorrido alla foto di Paolo. È stato bello, ma oramai non esiste più lui come lo ricordo. Perché dovrei parlare alla sua lapide? Perché riferirmi a lui come se fosse ancora capace di ascoltare?
Continuerò a desiderare d’averlo sotto i polpastrelli, fra le labbra, ogni tanto.
Certo non lo dimenticherò, ma tanto vale andare avanti.
Fuori, fisso perplessa una famiglia: due donne sulla quarantina stringono le mani di mariti e figli.
Il padre è morto da poco, lo conoscevo, e nelle loro lacrime c’è tutto il dolore della perdita. Quell’uomo è probabile che abbia insegnato loro a camminare, ad andare in bicicletta, a stare attente agli uomini, e ora lo ricordano in questa messa celebrativa appena dopo una settimana.
Io sono qui per il compleanno mancato di Paolo, ma probabilmente l’utilità sarà la stessa.
Evito di fare il segno della croce.
La messa è già iniziata. Gli zii, i cugini, Marco e i miei sono in seconda fila e li saluto al volo con un cenno e mi nascondo, rischio che mi vedano ridere.
È sorprendente trovarsi da questa parte del fiume e notare quanta scena per dei morti. A tutt’ora, qui dentro, molti pensano che siano andati in paradiso, che gli angeli abbiano raccolto le anime dei loro parenti nell’aldilà. Certo, è scorretto da parte mia trovarci tanta ironia, anche perché provengo da queste tradizioni. Però non ci credo più. È stato un distacco graduale, credo. Oggi preferisco vivere senza burattinai. Giostrarmi da sola i fili.
Paolo mi diceva che per lui la religione fosse una cosa soggettiva e personale e mi ha mostrato la felicità nella sua laica esistenza.
“Allora ragazzi, il solito? Ve lo porto al tavolo”. Il barista oramai si fa le domande e si risponde.
“Grazie” dico quando mi porge il caffè.
“Grazie mille. Oh, il babà oggi ci vuole proprio!”. Massimiliano e il suo ginseng ammirano la natura dei due pasticcini di benvenuto.
“Vedo che hai un animo alcolico questo pomeriggio!” inizio.
“Non vorrei infierire, ma quella che fra i due è in preda alle frenesie ha del cellofan intorno al braccio” ribatte.
“Mmh – poso il bicchiere di vetro – Marco ha scelto la facoltà a cui si iscriverà e… ho fatto una piccola follia”.
“Aspetta, ti sei tatuata davvero un osso? Vuole prendere medicina?”.
“Legale, per l’esattezza”. Sorrido orgogliosa alla pelle ancora arrossata da ieri.
“Comunque sia l’ho rispedita in Inghilterra. Ti giuro, non sono io il problema. Sono totalmente incompatibile con le menti superficiali, ma in qualche modo devo pur sperimentare, no?! Questa praticamente era una maniaca dei progetti. Appena ha accennato alla possibilità di trasferirsi in Italia per stare con me, sono andato nel panico. Sì, sono aperto ai compromessi e in una relazione sono sempre coerente, ma quando d’improvviso sento mancare sia l’empatia sia l’entusiasmo per un possibile futuro, per me la faccenda è chiusa”.
“Ti prego, dimmi che sei stato almeno civile nel lasciarla”.
“Guarda, lì per lì non sapevo che fare, eravamo da me. Poi mi arriva un messaggio di Alessia. Mi pare te ne abbia già parlato: è quella mia amica lesbica, la figlia di Bruno della gelateria. Tornando a noi, mi cerca per dei libri che le servivano, così ho buttato lì che mi ero innamorato di un’altra. Dovevi vederla, povera, ha chiesto se poteva andarsene subito da casa. Giuro, sono stato comprensibile e le ho detto di sì, così ha radunato tutte le cose in valigia e col primo volo è ripartita. Letteralmente il primo disponibile da Fiumicino. Non aveva problemi economici.”
“Dopo una biopsia, per rimanere in tema, le rimetti tutte in libertà. Certo che sei una persona di cuore, tu!”
“Facciamo dell’ironia adesso? Parliamo di te, single da …?”
“Fieramente un anno, quasi.”
“Ma come fai? Io da solo reggo a malapena un mese. Certo anche con qualcuno…” sottolinea con una smorfia significativa del volto.
Potrebbero scambiarci per fratelli: anche i nostri occhi sono simili.
“Tornando ai miei problemi relazionali …”
Il suo cellulare squilla interrompendo il soliloquio.
“Visto, l’abbiamo appena nominata… Pronto, Ale?… No figurati, guarda sono con Lucia… quella mia amica di cui ti parlavo – mi squadra compiaciuto e ride – Frena gli ormoni, è etero … Ahahah comunque siamo da Paggi e Serangeli, se vuoi fare un salto… sì, portali, ho spazio nel borsone… ok, ti aspettiamo”. Riaggancia e riprende a parlare di sé.
Che essere meraviglioso: ama le donne con trasporto, tende di norma alla serenità e ha imparato ad aver fiducia in sé per non cadere in depressione; è magro come me, ma più logorroico e coinvolgente quando conversa. Si illumina interrompendosi ancora ed allontana la sedia per alzarsi.
“Hey! Allora, com’è?” chiede verso qualcuno alle mie spalle.
Poi vedo una massa ondulata castano-ramata attraversare il campo visivo. Un metro e sessanta di giacchino di pelle nero, dark jeans, cinta e guantino rossi; tre anelli sulla destra e due sulla sinistra, cinque centimetri per braccio coperti da bracciali. È pura luce. Una sintesi tra un puma e un agnellino, aggressività, dolcezza e sensualità.
Sotto il suo sguardo nocciola, mi si incendiano idee che da un anno sonnecchiavano. Tanto occupata a vivere, riscopro d’improvviso la malizia e fantasie che scalpitano.
Mi alzo e da quel rossetto violaceo emerge un sorriso felino: “Sicura di essere etero?”.
In Alessia brucia la bellezza caratteristica d’una donna. La complessità d’un essere intelligente che gioca col fuoco. Una cultura che accetta Dostoevskij, la Austen, Poe, il thriller ed in noir. Una musica versatile e travolgente.
Un brivido e la voglia.
La Dada