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Catena, il mare e il pranzo di Natale.

Pubblicato il 10 Mag 2015

Scritto da

Di Raffaella Clementi

per il concorso “Libero Amore in Libero Stato” 

La chiamavano Catena, ma a dispetto del suo nome non aveva legami né radici, con luoghi o con uomini, a quanto la gente ne sapesse. A dire il vero, non possedeva neanche un certificato di battesimo che documentasse provenienza, età e natali.

Per tutti era Catena e basta e il suo mestiere era vendere ricette.

Guidava uno sgangherato veicolo, una sorta di vecchio carretto ambulante, percorrendo strade secondarie che, sembravano un affronto anche al più audace degli stambecchi e si arrampicava su, su, sulle coste dei paesi più interni di una Sicilia di altri tempi. Poi, si fermava nei mercati, o alle fiere di qualche paese dimenticato dalla clemenza del Dio più paziente e apriva un lato di quel suo trabiccolo ambulante, ripiegandolo in avanti e sorreggendolo con un’asta di fortuna, sedendosi ad aspettare.

Catena non parlava.

Nessuno mai la sentì proferire una sola parola. Nessuno, tranne il Giudice Aurelio Maria Orlandi che ricevette in dono poco frasi, custodendole fino alla tomba insieme ai logorii dell’anima.

Catena scriveva.

L’eco delle sue ricette arrivava prima della sua presenza, tutti la conoscevano e tutti aspettavano, da un capo all’altro dell’isola, l’occasione per avvicinarla e chiederle consigli. Cosa ci fosse di prodigioso nelle sue ricette, nessuno lo sapeva con certezza, ma tutti avrebbero potuto giurare sul proprio onore che, la cena, il pranzo, il banchetto cucinato sulla base delle sue prescrizioni, era destinato a riscuotere un successo assicurato. Qualcuno raccontava di liti risolte dopo pranzi cucinati alla Catena, altri riferivano di perdoni a tradimenti, condoni e amnistie e riavvicinamenti e promosse fatte sopra piatti di cibi che sembravano incantati. Dovunque Catena arrivasse, la gente l’aspettava, impaziente di pagare le sue indicazioni culinarie. Si metteva in coda davanti alla sua bancarella, quasi fosse in processione e attendeva il suo spicchio di illusione.

La fama la precedeva, come il profumo di un arrosto fumante.

Vendeva le sue ricette a prezzi ridotti. Un buon rapporto tra qualità e spesa.

Poche lire per le mogli che speravano di tenersi i mariti prendendoli per la gola, manicaretti a pochi spiccioli per quelle che dovevano farsi perdonare qualche difetto o qualche confessione, mentre, aumentavano di qualche lira le richieste per pietanze succulente che avevano come scopo il ritorno di un figliol prodigo. Ma su una cosa Catena non transigeva.

Nessuna ricetta per quelle donne che cucinavano per rubare i mariti delle altre. Se, malauguratamente, qualcuna la induceva in errore, facendole credere che la ricetta richiesta serviva a un ritorno di fiamma, invece che al tentativo maldestro di un’amante disperata, la ricetta, da intrigante e goliardica si trasformava in un piatto stregato che nutriva malesseri, indigestioni e portava alla rottura delle relazioni clandestine.

Catena riceveva le persone seduta su uno sgabello, sotto una specie di tenda fatta con una vecchia tovaglia. Ascoltava, senza annuire, con gli occhi piccoli e vicini che sembravano bucare anche le anime più stratificate. Non aveva bisogno di ascoltare la fine delle richieste.

Lei sapeva cosa la gente voleva.

Era capace di intravedere anche i loro sogni. Ascoltava e poi scriveva. A chi non aveva soldi, ma la malinconia nel cuore, regalava un ingrediente segreto. Ne aveva per tutti. Ricette per dolci, ricette veloci, leggere, economiche, gravose. Ricette per torte, crostate, biscotti e pasticcini. E poi per sformati e zuppe e pizze e focacce e polli e tacchini. L’ingrediente segreto, invece, era qualcosa che usava regalare solo ad alcuni.

Impiegava le spezie come un pittore usa i pennelli; le radici e i fiori come un funambulo, i fili. Metteva tutto nero su bianco, come se scrivere le dosi giuste e mischiare i componenti con le parole le concedesse la facoltà di creare dal nulla. Vendere ricette era la sola cosa che sapesse fare, a quanto la gente ne sapesse. A fiera finita, Catena, chiudeva la sua stramba automobile e in qualunque luogo si trovasse, tornava sui passi per dirigersi verso il mare. Non importava quanta strada la dividesse dalla vastità dell’acqua, né quanta fatica dovesse affrontare. Come una bussola che, punta sempre verso nord, lei, cadesse il cielo, finito di vendere, si avviava al mare. Anche quando, stanca, sembrava che il sonno le strappasse gli occhi, lei, non smetteva di guidare se non davanti al mare.

L’ingrediente segreto di tante sue ricette erano proprio, le gocce di mare.

Della riva, o degli scogli, oppure, in casi rarissimi, le gocce delle acque profonde che, ne era convinta, potevano cambiare il destino delle persone.

Dicono che di notte, nascosta dentro il nero del silenzio, Catena parlasse con le onde.

Dicono che, una sagoma di donna dai piedi scalzi e dal fisico possente, si aggirasse per le spiagge dell’isola e che una nenia, simile al canto di una madre per un figlio, si sentisse in lontananza.

Un canto più irrequieto del vento sulla battigia, più pesante dei passi in mezzo all’inverno.

Qualche vecchio saggio, nelle sere d’estate seduto davanti all’uscio della propria casa, ipotizzava che, era proprio dal mare che Catena prendesse spunto per le sue ricette. Era il mare a sussurrarle quando miscelare il sale delle sue acque, a bisbigliarle il sapore agrodolce di certe tempeste, o la quiete liquida della calma dopo il pianto. Dal suo profondo, lei prendeva i sospiri intimi delle conchiglie, simili agli abbracci degli innamorati. Negli anfratti, il sapore carnale dei molluschi mischiato al profumo di certe notti, quando la luna vi si riflette dentro, specchiandosi nel buio e cede uno spicchio di tregua alle disperazioni. I vecchi, dicevano che, Catena fosse in grado di asciugare le lacrime del mare, insieme con quelle delle cipolle, insieme con quelle delle persone. Tranne le sue.

Nessuno seppe mai, tranne il vecchio Giudice Orlandi, che proprio il mare, si era ripreso le uniche persone che lei avesse mai amato. Un cuoco imbarcato come marinaio su una nave mercantile diretta a Buenos Aires e il principio di un futuro. Lei amò tanto, ma così tanto l’uomo che, non avrebbe mai voluto separarsene. Si perse, infatti, nelle sue parole, interpretandole come impegni e vivendole come nodi. Condivise tutte le sue promesse abbandonandosi alle lusinghe. Lui cucinava piatti prelibati – che le insegnò – lei si donava con ardore fino a cedergli totalmente il suo cuore. Fu per questo motivo che, quando lo scoprì tra le braccia di un’altra, credette di soffocare. Il dolore fu lancinante come uno schianto e quando gli lanciò in testa una padella, tramortendolo al suolo, dovette ricorrere a tutto il suo coraggio per non costituirsi alla polizia o fuggire, per proteggere il bambino che portava in grembo. Purtroppo, consegnò quel bambino e la parte più fonda di sé, ai delfini, in una notte in cui i crampi le contorsero le viscere, mentre il fedifrago, riavutosi dopo due giorni di stordimento, riprese il largo, più di fretta che di fuga, con una cicatrice in testa e una possibilità persa. Cosa che lei non seppe mai.

Fu durante una delle camminate, che usava concedersi lungo i bordi del mare, da quando aveva raggiunto l’età della pensione, che il giudice Aurelio Maria Orlandi, rimescolando i pensieri sulla faccenda della felicità umana, si rese conto di quanto questa non fosse un dono illimitato, ma qualcosa che rispondesse alla logica del prestito. Lui e sua moglie Anita avevano goduto di questo credito per tanto, tanto tempo, amandosi con profondo rispetto e dando luogo a giorni colmi, figli bravi e nipoti sani cui passare il testimone della ciclicità infinita. Fino a quando un cancro all’utero dell’amata consorte, aveva posto fine alla tregua concessa, indicando il momento della restituzione della felicità.

I due, si erano così ben amalgamati in tanti anni di vita insieme che, era difficile capire dove iniziasse l’uno e terminasse l’altra. Lei mitigava con l’allegria e la spensieratezza il temperamento fin troppo probo dell’uomo dedito alla regola, quale egli era, incline al rispetto della legalità, alla laicità della norma sociale ad ogni costo e, possedendo lei, una comprensione illimitata per le debolezze umane – anche le più miserabili, anche le più disgraziate – riusciva, senza averne notizia, ad addolcire le sentenze dure, emesse dal marito, nei confronti dei rei più sciagurati. Dal suo canto, il Giudice, dipendeva così tanto dai sogni di lei, dai quali era solita entrare e uscire con la disinvoltura di un fantasma, tanto le erano vicini i piani della realtà e del sogno, che vacillava al solo pensiero di lasciarla definitivamente andare, oltre quel varco. L’idea di assistere impotente alla sua sofferenza, sbatteva le sue spalle contro il più granitico dei muri attorcigliandogli la pancia.

L’ex magistrato, come tutti gli abitanti dell’isola, conosceva la fama delle doti culinarie di Catena; ma fu solo incontrandola sulla spiaggia, una mattina freddissima di novembre che, decise di avvicinarla con l’intento di chiederle di cucinare il pranzo più buono che avesse mai fatto. Se sua moglie Anita non avesse fatto in tempo ad arrivare a vivere l’ultimo Natale insieme, era suo specifico compito anticiparle la festività, distribuendole un conclusivo, meraviglioso, appagante, piacere terreno. Lui, dopo, avrebbe pensato al resto. Avrebbe pensato a renderle piccoli i dolori, a renderle lieve la morte, a lasciarla andare con la dignità di chi decide quando è meglio finire, senza parole stanche.

Come sempre Catena non ebbe bisogno di ascoltare la fine delle richieste del Giudice.

Lei sapeva bene cosa lui volesse perché capace di vedere oltre i sogni.

Fu così che accettò l’incarico più arduo che le fosse mai capitato.

Dette fondo a tutte le sue conoscenze, cercò gli ingredienti più freschi, i più buoni, quelli più rari e gustosi e ci mise dentro una passione tale che, neanche il palato più avvezzo a sapori straordinari, avrebbe potuto scorgervi talento migliore. Quanto all’ingrediente segreto, partì di notte, con la barca prestatale da un pescatore di sarde, per prelevare le gocce delle acque profonde che, ne era convinta, potevano cambiare il destino delle persone. E per fare di più, ci mescolò dentro la verità.

Quella verità nascosta che da anni le avvelenava cuore e speranza, immobilizzandola nella solitudine.

Poche frasi, riemerse dal centro del petto per raccontare dell’uccisione del suo amante e del prezzo pagato con la peggiore delle perdite.

Quando il Giudice le chiese perché avesse raccontato proprio a lui l’accaduto e cosa si aspettava che facesse, Catena non rispose nulla. E lui, nulla fece, tranne, sfiorandole la guancia, dirle che nessun figlio, anche quello non nato, paga per le colpe commesse dal suo genitore. Nessuna libertà è una concessione, al contrario della fortuna, anche se entrambe, a volte, giocano partite sporche e fanno brandelli di quello che resta. Eppure, vale sempre la pena sudarsele sul campo, sebbene questo riporti le ferite dei perdenti, alla faccia di chi pensa che, ogni faccenda, dalla vita, alla morte, sia già decisa.

Poi, prese in carico le poche frasi e le custodì fino alla tomba, insieme ai logorii dell’animo di una donna che aveva cercato nell’uomo, prima ancora che nel giudizio, un concedo umano provvisorio e incerto per la salvezza.

L’ingrediente segreto non riuscì a cambiare le sorti della signora Anita che, con somma eleganza, abbandonò questo mondo dopo aver goduto del pasto migliore della sua vita, paga dell’amore ricevuto e circondata dai suoi affetti, ma solo dopo aver guardato dritto, dritto, gli occhi dell’uomo che, sulla terra, l’avevano completata, abbandonandosi ad una buona morte.

Non molto tempo dopo, una mattina di buon ora, uscito per la sua solita camminata, alzando lo sguardo oltre l’orlo che limita l’inizio dell’acqua e la fine del cielo, il Giudice rivide Catena oltre la riva. Era in piedi tra le onde che, le battevano contro, come un cane festoso sulle gambe del padrone. Il profilo girato verso loro, fradicia fino al petto. Sembrava che tenesse tra le braccia un bimbo e che, carezzandolo, ridesse con lui, schizzandolo sul viso.

Il giudice sorrise con gli occhi umidi per la consapevolezza di aver restituito, proprio ad una donna senza pace, un pezzo della felicità prestata e di aver riunito le due parti di una stessa anima, malgrado, voltandosi verso il mare, non vide più le sagome dei due, liquide come l’acqua circostante.

La chiamavano Catena, il suo mestiere era vendere ricette, il suo orizzonte, il mare.