Ospiti

Asce, accette e coltellacci

Pubblicato il 9 Lug 2021

Scritto da

Fare a pezzi il corpo fu più difficile di quanto mi fossi aspettato, ma ero determinato a cucinarlo per la cena tra amici e a fare in modo che i presenti si mangiassero le prove dell’omicidio, insieme a un bel contorno di patate e formaggio. Potrà sembrare paradossale ma giuro di dire la verità, affermando che, arrivato a quel punto, fu trovare il contorno la parte più complessa; non solo studiare i sapori e gli abbinamenti che potessero esaltare quelle pregiate bistecche di umano, l’aroma del formaggio più corretto e la cottura delle patate, non solo questo: la disponibilità delle materie prime nei negozi era ormai pressoché esaurita.
Aggiungete a ciò che il mio nome e il mio volto erano su tutti gli schermi di computer e tablet, i social e i media online parlavano solo di me da giorni. Capirete da soli perché mi avrebbe roso il culo se i miei commensali non avessero apprezzato la cena e lasciato qualche avanzo.
Ma chi, di questi tempi, avrebbe lasciato della carne?
La carne stava lì, sul tavolo di marmo da preparazione della mia cucina, ben affettata e pulita: cinque tagliate da duecentocinquanta grammi l’una, orecchie, lingua da cucinare con il grassato di cipolla, fegato, cuore e interiora pronti da far rosolare con il soffritto sul tegame e, infine il cervello. Le ossa erano già in una pentola, utili per il brodo. Una cena pantagruelica, anche se mi rendo conto che avrei dovuto tenere da parte qualche pezzo da mettere in congelatore per i giorni futuri, sicuramente più parchi di questo, ma si festeggiava il mio ritorno e, inoltre, non potevo lasciare tracce.
Alternavo le preparazioni rilassando il ghigno soddisfatto, perennemente stampato sulle labbra e negli occhi, bevendo del vino rosso quando, un movimento affrettato del braccio, mi fece cadere il calice, creando a terra un rivoletto color porpora.
Un rivolo color porpora scorreva vicino al mio corpo, lo vidi al mio risveglio. All’inizio pensai provenisse dal mio cranio: la botta era stata dura; una volta accertato che non fuoriuscisse dalla mia testa mi ricordai di Luca, ero con lui prima di cadere stordito. Lo chiamai più e più volte, senza ricevere risposta. Qualche minuto dopo vidi la porta dello stanzino in cui mi trovavo aprirsi e la sagoma di un ciccione di centoquaranta chili avvicinarsi. L’opulento carceriere – di questo si trattava! – mi sparò addosso il suo alito, un misto di morte e merda, per spiegarmi dove mi trovavo.
– Benvenuto nel mio agriturismo! Qui cuciniamo a mangiamo solo prodotti a chilometro zero – disse ridendo sonoramente – stavamo giusto per finire le nostre bestie quando vi abbiamo trovato.
Non preoccuparti del tuo amico, è ancora vivo: lo stiamo allevando e foraggiando in un’altra stanza.
Ci vorrà ancora un po’ prima di essere pronto. –Mi trovavo in quella che doveva essere stata una piccola stalla, capii subito che presto sarei diventato un piatto – neanche tanto gourmet a giudicare dalla pulizia e dalla classe del bastardo che mi aveva accolto – di quel ristorante.
La presi sportivamente; mors tua, vita mea si dice, ed è vero: trovare un animale da macellare, ormai, è impensabile, non esiste più carne, quella degli insetti che qualche anno fa sembrava essere la nuova avanguardia gastronomica, che avrebbe risolto il problema del sovrappopolamento e delle risorse di sostentamento, oltre che quello degli allevamenti intensivi, era diventata appannaggio dei più ricchi e neanche quella si trovava facilmente: erano rimaste solo le verdure che, come potete immaginare, non bastavano per tutti i ventidue miliardi di abitanti di questo pianeta; la presi sportivamente ma non avevo intenzione di finire prima nell’apparato digerente di qualcuno e, successivamente, scaricato dentro un cesso. Dovevo farmi venire un’idea per uscire da quel posto, idea che arrivò e misi in pratica dopo tanti giorni di prigionia e allevamento coatto che difficilmente dimenticherò. Mi cibavo di fieno e poppate di latte dalle mammelle di tre donne, anch’esse rapite, anch’esse tenute in una stalla – a livello industriale, per produrre il formaggio, la cosa era più etica: le donne erano invitate a donare il loro latte venendo remunerate –; tre volte al giorno attaccavano il mio pene a una macchina che mi masturbava e raccoglieva lo sperma: una parte serviva per il mio apporto proteico, l’altra, raccolta in dei silos; il motivo non voglio saperlo. Passavano i giorni e non ne potevo più, dovevo scappare, ammazzare quel ciccione di merda e andarmene: avevo persino pensato di suicidarmi, creando nel mio corpo delle ferite profonde, infettarle e morire di cancrena, avvelenando la mia carne e renderla non commestibile ma lasciarmi andare sarebbe stato troppo facile, dovevo uscirne vivo e vincitore.
Luca non era ancora morto ma sfinito e non poteva essermi d’aiuto: avrei dovuto pensarci da solo e così feci. Il caro prezzo che dovetti pagare per la libertà fu fare a pezzi un uomo mentre urlando mi implorava pietà. Mors tua, vita mea.
Asciugai il vino dal pavimento e mi rimisi all’opera, gli amici stavano per arrivare.
La cena fu molto apprezzata, mangiammo tutto e bevemmo tanto – loro molto più di me, erano già  mezzi sbronzi – poi qualcuno mi chiese come stavo, come mi sentivo.
– Fare a pezzi il corpo fu più difficile di quanto mi fossi aspettato – risposi – ma ero determinato a cucinarlo per la cena, per voi. Certo, dovevo anche eliminare le prove dell’omicidio – aggiunsi ridendo.
– E Luca? Non sei riuscito a salvarlo. Lui era stato già… – disse uno di loro.
– È stato terribile – risposi – il figlio di puttana che ci aveva rapito mi ha costretto a farlo a pezzi.
Sento ancora le sue urla, mentre implorava pietà. Le sentirò per sempre. Luca era dolcissimo, una pasta d’uomo e adesso posso dirlo con certezza. Letteralmente.

– Cosa vuoi dire? –– Avete detto tutti che la carne era squisita, no? Luca è stata la nostra cena. – il volto, prima fintamente contrito, diventò una maschera diabolicamente inespressiva. Nessuno, dei quattro amici, ebbe il tempo di protestare: da una porta entrò il ciccione, con l’altro dei carcerieri che non avevo conosciuto, muniti di asce, accette e coltellacci. Insieme facemmo a pezzi i miei amici e ci assicurammo un bel po’ di scorte di carne per il futuro.
Mors tua, vita mea.

Gaetano Schinocca