Roberto Petrucci, allenatore della Libertadores urlava come un ossesso nonostante la sua voce lo stesse abbandonando.
“Stringete i denti che è finita! Capito? Stringete i denti che è finitaaa!”
Doveva cercare di mantenere la concentrazione dei suoi ragazzi durante quell’ultimo calcio d’angolo.
A livello acustico ne usciva fuori una serie di urla agonizzanti più o meno incomprensibili che assordavano tutti i giocatori in campo ma riuscivano a sovrastare gli incoraggiamenti dei tifosi del San Giovenale.
La formazione allievi della Libertadores, squadra del quartiere operaio di Terni, era arrivata a quella ultima trasferta al secondo posto della classifica, a un solo punto di distacco dalla squadra di casa. Era l’ultima partita del campionato provinciale categoria “Allievi” in cui alla squadra del paese situato nelle colline della Valnerina bastava un pareggio per vincere il campionato, mentre alla Libertadores serviva un vero miracolo. In quella stagione infatti, contro il San Giovenale, avevano sempre perso.
Il campionato si era disputato in due gironi di andata e due di ritorno fra le dodici squadre partecipanti, in modo da tenere impegnati i ragazzi dall’inizio dell’autunno alla fine della primavera successiva.
La formazione della Libertadores guidata da Mister Petrucci aveva rimediato uno zero a quattro nel proprio campo cittadino di Viale Brin che non ammetteva repliche; poi una nuova sconfitta per due a uno in trasferta (“Segno di una squadra in crescita” sosteneva l’allenatore, anche se nessuno lo prendeva seriamente) poi ancora una sconfitta in casa per colpa di un rigore contestatissimo all’ultimo minuto.
Ma nelle partite di quell’ultimo girone di ritorno il San Giovenale aveva dormito sugli allori, permettendo una inaspettata rimonta alla Libertadores su cui nessuno avrebbe mai scommesso all’inizio del campionato.
“Sacchiiii… Sacchiiiii… stagli addosso al sette… hai capito? Stagli addosso al sette!”
Sacchi all’anagrafe era Marco Coletti ma tutti lo chiamavano Bruno Sacchi, per via di un improbabile somiglianza con il celebre personaggio dei “Ragazzi della terza C”; in realtà l’unica cosa che aveva in comune con l’attore erano i riccioli rossi ma sui soprannomi che ti danno non c’è molto da discutere. E in fondo non gli dispiaceva. A parte il fatto che c’erano soprannomi ben peggiori da sopportare, da quando avevano cominciato a chiamarlo “Bruno Sacchi” il centravanti di riserva della Libertadores si era sbloccato: nove gol nelle ultime dieci partite quasi tutti entrando a partita iniziata. Tanto che da un mese il suo soprannome completo era diventato Bruno “bum bum” Sacchi.
Anche quel giorno non aveva deluso, chiamato in causa all’inizio del secondo tempo sul punteggio di uno a uno, Marco/Bruno dopo dieci minuti aveva approfittato di un mancato controllo del terzino avversario e, a quasi trenta metri dalla porta avversaria, Bruno/Marco non aveva pensato a nulla. Non aveva guardato dov’era il portiere e non aveva visto se c’era qualcuno meglio posizionato di lui. Il calcio di collo pieno al primo rimbalzo utile trasformò la sfera di cuoio con i classici esagoni bianchi e pentagoni neri, in un missile la cui parabola non lasciò scampo al numero uno del San Giovenale. Appena il pallone partì era evidente a tutti che sarebbe finito in rete.
I giocatori esultarono a lungo, come lo sparuto gruppetto dei loro tifosi (genitori, amici e le ragazze delle prime tresche giovanili); poi si scatenò l’assedio.
Il quarto d’ora successivo al gol del vantaggio i ragazzi della Libertadores lo avevano passato chiusi nella propria area. In quei minuti “Il fornaro” (al secolo Davide Maccaglia, ovviamente destinato nella vita a portare avanti il forno di famiglia) aveva onorato il suo delicato ruolo di portiere salvando due gol che sembravano già fatti. Poi, ancora chiamato in causa, si lanciò in un’uscita spericolata sulle gambe del centravanti avversario togliendogli la palla dal piede un istante prima del calcio a botta sicura. La botta però la prese lui in pieno volto, e si giocò così la linea dritta del suo naso e la possibilità di proseguire quella partita.
Il secondo portiere Alessio Durastanti era stato convocato per l’occasione dalla squadra dei giovanissimi perché alla riserva ufficiale del fornaro, ovvero Mirko Cesaretti, da qualche settimana era stato proibito di giocare a pallone visti i pessimi risultati a scuola.
Tutti dicevano meraviglie di Durastanti, ma di certo non era quella la giornata migliore per esordire in una categoria superiore. Gli uscì una lacrima in silenzio mentre si allacciava gli scarpini marcati “Pantofola d’oro”. Lacrima che non sfuggì agli occhi di Mister Petrucci, ma che si guardò bene dal farne parola. Gli mise le mani sulle spalle, poi guardandolo negli occhi gli disse: “Tu fai il tuo, che al resto ci pensiamo noi”.
Ed effettivamente in quell’interminabile finale di partita, la difesa della Libertadores sembrava aver trovato le misure. Ma a dieci minuti dallo scadere Carlo Gubbiotti, stopper e capitano della squadra, dopo aver anticipato correttamente l’ala sinistra del San Giovenale e passato la palla al giovane portiere, si girò con lo sguardo assassino verso l’avversario, si avvicinò a lui con calma e gli tirò un pugno in pieno volto sotto gli occhi dell’arbitro. Nessuno seppe mai i motivi del gesto e cosa poteva aver detto l’eclettico numero undici del San Giovenale per far saltare i nervi ad un ragazzo considerato fino ad allora un blocco di ghiaccio. Del resto quella fu per Gubbiotti ultima partita di pallone, non rientrò mai dalla squalifica di dodici giornate. Disse a tutti che aveva perso la voglia di giocare.
Da quel momento tutto divenne più complicato. L’assedio finale, nelle narrazioni fatte dai protagonisti negli anni a venire faceva sembrare l’assedio di Fort Alamo una scaramuccia di poca importanza.
Una volta il palo e una volta la traversa graziarono la Libertadores poi, a tempo già scaduto, l’arbitro concesse una punizione dal limite sinistro dell’area, proprio nella posizione preferita dal “Cyborg”, ovvero il numero dieci degli avversari e capocannoniere del torneo. Purtroppo per lui il giovane Durastanti dimostrò con un volo spettacolare perché si parlava così bene di lui, tolse dall’incrocio dei pali il pallone calciato alla perfezione e ricacciò in gola l’esultanza ai supporter del San Giovenale.
Ormai anche i minuti di recupero erano ampiamente scaduti come ricordò premurosamente all’arbitro, urlandogli in faccia e ricoprendolo di schizzi di saliva, l’accompagnatore della Libertadores ovvero Goffredo Ballini; bancario in pensione noto per non aver mai alzato la voce in tutta la sua vita.
Ma nonostante l’inaspettata sfuriata Ballini ottenne solo la propria espulsione dal campo: l’arbitro avrebbe fatto battere quell’ultimo calcio d’angolo.
“Sacchiiiiii prendiloooooo… marcalooo… il sette… No anzi l’ottoooo… il sette lascialo a Maurizioooo… attenti al portiereeeeeee!!!”
Anche Mister Petrucci era noto per un aplomb non comune nelle panchine provincia, infatti fino a quel giorno lo chiamavano “Il Liedholm di Borgo Bovio”. Ma ormai aveva abbandonato ogni ritegno e urlava frasi sconnesse ad automi trasfigurati dalla trance agonistica; nessuno poteva capire il senso di quello che diceva; e intanto tutto il San Giovenale era riversato nell’area della Libertadores caricato dagli incoraggiamenti disperati dei propri tifosi. La loro squadra aveva un uomo in più e anche il portiere aveva lasciato la porta per tentare la sorte in quell’ultimo disperato attacco.
Sacchi il numero sette lo stava effettivamente marcando stretto, nonostante giocare a difesa non fosse il suo forte; gli stava anche tenendo la maglia come gli aveva appena consigliato di fare, richiamandolo con uno scappellotto sulla nuca, il libero Trissati; ma il sette era una vecchia volpe. Un fuori quota che aveva giocato con l’Under 18 e che ne sapeva una più del diavolo, calcisticamente parlando.
Quando “il cyborg” colpì la palla dal calcio d’angolo, il sette pestò il piede di Bruno Sacchi per darsi lo slancio e costui, distratto dal dolore imprevisto, gli concesse un istante di vantaggio che poteva risultare decisivo. Bruno vide la traiettoria della palla e capì subito che stava andando esattamente ad impattarsi sulla testa del sette all’altezza del palo scoperto dal portiere.
Ormai era dietro l’avversario e non aveva possibilità di anticiparlo nel salto, così prese d’istinto la decisione sul “che fare” spingendo il fondoschiena dell’avversario con un movimento rapido e deciso.
Il sette urlò come un’anatra colpita dalla doppietta di un cacciatore, ma la palla lo scavalcò e Trissati posizionato dietro di loro la rinviò lontano.
L’arbitro fischiò.
Bruno/Marco chiuse gli occhi… se fosse stato un fischio singolo significava che aveva concesso rigore e quindi il pareggio sarebbe stato inevitabile. Durastanti non avrebbe mai parato un rigore al cyborg. Ma subito dopo arrivarono il secondo e il terzo fischio quindi Marco/Bruno riaprì gli occhi, vide l’arbitro che indicava l’uscita delle squadre dal campo, quindi urlò di gioia alzando i pugni in segno di vittoria.
Poi arrivò il pugno del sette sui suoi denti. Poi arrivò la rissa. Poi entrarono in campo gli spettatori di entrambe le parti anche se quelli di casa erano in numero molto maggiore. Poi arrivarono i carabinieri che scortarono negli spogliatoi i giocatori cittadini bersagliati anche delle bottiglie di spumante con cui il San Giovenale doveva festeggiare la vittoria del campionato. Passata qualche ora questi riuscirono ad uscire dagli spogliatoi e tornarono a festeggiare in città.
Era il 1988, gli allievi della Libertadores avevano vinto il campionato provinciale sotto gli occhi degli osservatori nazionali.
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Il tempo era scaduto.
Rimaneva solo quel calcio d’angolo a tenere vive le speranze della Sambenedettese di riuscire a sbloccare lo zero a zero contro la Torres e ribaltare così quel due a uno rimediato in Sardegna e quindi andare in serie B al posto degli isolani.
Marco Coletti, che nessuno chiamava più Bruno Sacchi da un bel pezzo, aveva la maglia numero nove e la fascia di capitano, nonostante le origini ternane con cui la squadra di San Benedetto del Tronto aveva una rivalità storica. Aveva segnato ventuno gol in quella stagione di serie C 1997/98, ma senza il ventiduesimo che doveva assolutamente mettere a segno in quella finale dei play off tutto sarebbe significato poco. Nessuno ci teneva a passare alla storia come “quelli che erano quasi andati in serie B”.
Nonostante fosse il novantaquattresimo minuto della partita e le speranze ridotte al classico lumicino, Coletti continuava a muoversi ossessivamente e rapidamente nell’area avversaria; ripeteva piccoli scatti per svincolarsi dalla marcatura dei tosti marcatori sardi.
La palla partì dalla bandierina e Coletti cominciò a calcolare la traiettoria. Lui era sul secondo palo e la palla sarebbe arrivata sul primo. Anche il portiere avversario lo aveva capito infatti si lanciò in quella direzione per afferrarla. Ma uno dei difensori sardi saltò per rinviare di testa riuscendo però solo a spizzicare il pallone; allungò la traiettoria di questo e mise fuori causa l’estremo difensore.
Ora la palla andava proprio verso Coletti che si preparò ad una difficile girata al volo, ma prima di lui Ramirez, oriundo cileno della Samb, si lanciò con una mossa di karatè verso la palla tentando di passare alla storia della serie C.
Riuscì però solo a spostarne la traiettoria e il pallone, si rese conto Marco, sarebbe passato a quasi un metro da lui, troppo lontano per ogni possibile intervento consentito dal regolamento. Quindi al momento giusto si tuffò allungando e ritirando la mano rapidamente e colpendo con questa la sfera di cuoio. Questa finì in rete facendo esplodere in un boato lo stadio di San Benedetto del Tronto.
I giocatori della Torres cominciarono a protestare, qualcuno aveva visto il gesto di Coletti, ma Marco era già sommerso dall’abbraccio dei suoi compagni di squadra.
L’arbitro indicava il dischetto del centrocampo incurante delle proteste sarde, i giocatori della Samb tornavano ad occupare i loro ruoli per gli ultimi spiccioli di partita.
Coletti però, liberatosi dagli ultimi abbracci non riprese la sua posizione ma andò verso l’arbitro. Parlarono per qualche istante poi si strinsero la mano. L’arbitro fischiò di nuovo per comunicare il suo cambio di decisione. Assegnò il calcio di punizione alla Torres.
Ora erano i giocatori della Samb a protestare ma si placarono non appena il giudice di gara gli disse che era stato lo stesso Coletti a confessare il suo gesto. Tutti lo cercarono ma il centravanti aveva già preso la via degli spogliatoi sapendo che i suoi compagni non lo avrebbero mai perdonato.
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Pierclaudio Angeli aveva atteso che tutti si facessero la doccia rimanendo nella divisa da gioco in silenzio, mentre i compagni di squadra lo insultavano.
“Bravo, abbiamo un bel frocetto qui”, “Ma se volevi perde che cazzo giochi a fa?”, “Ma perché non vai a giocare a pallavolo come tutti i recchioni?”. Era il 2018, ma gli insulti fra adolescenti erano cambiati di poco in quei venti anni.
La colpa del giovane portiere della Libertadores era quella di aver confessato all’arbitro di aver preso il pallone quando aveva superato già la linea di porta dopo il colpo di testa dell’avversario.
Dopo poco si ritrovò quindi da solo nello spogliatoio e chissà quanto tempo ci avrebbe trascorso se Mister Coletti non fosse entrato sedendosi di fronte a lui.
Il Mister appena avvenuto lo “scandaloso” episodio della sua spontanea onestà lo aveva incoraggiato e applaudito dicendogli: “Bravo hai fatto bene, sta tranquillo!”. Ma nessuno dei due poteva sapere che quello sarebbe stato il primo dei tre gol che avrebbero ribaltato il risultato. In venti minuti si passò dal due a zero per la Libertadores a due a tre per la Bosico che, vincendo quella difficile trasferta, aveva messo una seria ipoteca sulla vittoria finale nel campionato provinciale Allievi 2017/18.
“Mister… ho sbagliato, vero?” trovò finalmente il coraggio di chiedere il giovane portiere dopo qualche minuto di silenzio.
“Eh… beh si….caro mio sul secondo gol sei uscito troppo tardi… e sul terzo dovevi stare più vicino alla porta che quel pallonetto l’avresti preso di sicuro”
“Ma no… dicevo sul primo gol…”
“E che hai fatto sul primo gol?”
“Beh… Mister ha sentito i compagni di squadra… li ho traditi”
“Tu non hai tradito nessuno, hai fatto quello che ti ha detto la coscienza”
“Però mi sento come se avessi fatto una gran cazzata”
“Dipende da te Angeli, se ce la fai a portare il peso della tua scelta non è una cazzata, se ci rimugini sopra, diventa una cazzata più grande ogni volta che ci pensi.”
Il quindicenne lo guardò confuso, il Mister proseguì: “Angeli il calcio è come la vita, fai sempre delle scelte. Un giorno scegli di lasciare una ragazza, un giorno scegli di marinare la scuola, un giorno scegli di dire la verità… al di là delle cose più ovvie non è mai detto che una scelta possa essere totalmente giusta o totalmente sbagliata, dipende da te… a volte fai scelte sbagliate che però ti rendono la vita più semplice o magari ti danno belle soddisfazioni. Scegliere spesso è difficile.”
Il Mister si passò la mano fra i capelli e continuò: “Vedi Angeli, tu oggi hai fatto la scelta di essere onesto… bravo! Va bene essere onesti, anche se a volte ti complica la vita. Ma altre volte invece potrebbe andar bene anche vincere anche senza essere onesti al cento per cento… mi hai capito? Mica dobbiamo essere santi per forza… insomma, quando fai una scelta mettiti l’anima in pace e non ci rimuginare sopra, altrimenti penseresti sempre o a quanto sei stato coglione se hai scelto di essere onesto o se hai fatto stare male qualcuno con un piccolo inganno. Una volta che hai fatto una scelta non ci stare a rimuginare sopra. Ok?”
Il Mister prese un attimo fiato, poi si alzò e concluse: “Dai, vediamo come vanno le prossime partite… mica è finito il campionato… siamo messi bene, chi ci avrebbe creduto che ci ritrovavamo a metà stagione al terzo posto con questa squadra di disperati… di… di… “risorse rubate agli orfanotrofi” come vi chiamo sempre?”
Angeli sorrise, si spogliò e andò a fare la doccia, aprì l’acqua e chiese: “Mister a lei in campo è capitato di fare qualche scelta difficile?”.
Marco Coletti sorrise si grattò la testa e disse, “Un paio di volte Angeli… un paio di volte”.
Il mister uscì a fare due passi sul campo sintetico della Libertadores, ripensò a quando quel campo era di pozzolana grigia e quante volte ne aveva sentito il sapore cadendo per terra o colpendo di testa un pallone sporco di fango. Vide un pallone al centro del campo, si avvicinò, prese una piccola rincorsa e colpì il pallone con il collo pieno del suo piede destro. Il pallone iniziò una traiettoria che attraversò metà del campo depositandosi in rete a cinquanta metri di distanza.
Tornò sui suoi passi, dopo poco si aprì lo spogliatoio e vide il suo giovane portiere uscire con la borsa in spalla.
“Angeli!”
“Sì Mister?”
“Divertiti quando giochi… che la vita poi è diversa!”
Il portiere lo guardò perplesso, ma fece comunque cenno di sì con la testa e si avviò verso casa.